Ogni relazione amorosa si basa sull’incastro,
più o meno funzionale, delle esigenze e dei bisogni di due individui. Questi
bisogni, spesso inconsci, trovano nella relazione con l’altro la possibilità di
essere soddisfatti e pertanto tendono anche a riconfermare i primi modelli di
funzionamento globale della persona, acquisiti nella prima infanzia. Come è
stato più volte sottolineato, le relazioni di attaccamento primarie determinano
con molta probabilità lo stile relazionale che una persona metterà in atto in
età adulta. (Bowlby, Ainsworth) Pertanto una persona che ha ricevuto amore e
fiducia ed una adeguata risposta alle sue esigenze primarie è probabile che
instaurerà relazioni future improntate sull’amore e il rispetto, viceversa chi
da bambino ha sperimentato una relazione primaria di insicurezza, e di non
risposta adeguata ai propri bisogni con molta probabilità tenderà a mettere in atto
modelli comportamentali tesi a risperimentare quel tipo di relazione, che se
pur insoddisfacente è l’unica
conosciuta fino a quel momento e l’unica in grado di dare quella garanzia di
prevedibilità e, di conseguenza di sicurezza.
Nell’ambito delle relazioni patologiche va
considerata come tra le più rischiose quella di dipendenza patologica che si
instaura all’interno di un modello circolare vittima-carnefice:
Il potere è suddiviso tra le parti in maniera
subdola, fintamente iniqua, ma la dipendenza è reciproca, il mantenimento degli
equilibri è un gioco a due, finemente mascherato dai ruoli appunto suddivisi di
“vittima e carnefice”. Poiché non
può esistere l’uno senza l’altra non vi è reale indipendenza tra le parti non
vi è sovranità e sudditanza ma co-dipendenza reciproca di conferma del modello.
Il modello primario di assenza di valore, di
vuoto interiore, di giudizio persecutorio, la necessità di assumersi colpe
acquisite e ricercate nuovamente per dare sfogo all’incessante forza dell’Io di
perpetuare Sé stesso. L’unico Sé fino a quel momento possibile, l’unico Sé fino
a quel momento conosciuto.
Ora, in questo momento storico il
femminicidio è all’ordine del giorno o meglio lo è il suo essere protagonista
delle prime pagine delle cronache dei giornali. Il fenomeno non è in crescendo
lo è soltanto il suo essere reso oggetto di dominio pubblico, fenomeno
mediatico strumento di manipolazione, come la
televisione che nel riportare con morboso dettaglio l’accaduto, suggerisce
quindi comportamenti specifici ed
indirettamente amplifica il fenomeno.
Non è un caso l’associazione che viene spesso
fatta quando si parla di violenza e abusi su donne e bambini. Donne e bambini.
Come se queste due categorie di individui fossero sovrapponibili per una
qualche caratteristica comune, nell’immaginario collettivo solitamente
rappresentata dalla debolezza. Ma va necessariamente sottolineata invece
l’enorme e sostanziale differenza per cui non credo si possano sovrapporre
queste due categorie, sebbene entrambe designate come vittime. Non credo questo
sia vero, in quanto ciò che contraddistingue l’essere una vittima è la totale
assenza di potere, il completo assoggettamento ad un altro individuo o forza
maggiore, cui è impossibile far fronte in qualunque modo. Analizzando nel
dettaglio quanto appena affermato, è evidente che l’unico a poter essere
veramente descritto da queste caratteristiche è il bambino. Non la donna. La
donna è un individuo adulto in grado di scegliere, di modificare la propria
esistenza. Va fatta una doverosa precisazione: è vero che una donna è
fisicamente più debole di un uomo e può quindi difficilmente contrastare un
attacco di tipo violento, fisico o sessuale, ma è vero che se non può reagire
la prima volta che inaspettatamente le accade di essere aggredita, è vero che
può scegliere se perpetuare quella situazione oppure no. La difficoltà sta
spesso nell’incapacità di accettare di vedere che vittima lo si è primariamente
di sé stesse: una donna vittima è anche
una donna carnefice, in quanto si mette nella condizione di essere vittima
delle proprie scelte, della propria impotenza. L’impotenza che deriva
dall’inconscia e profonda convinzione di meritare quello che si sta cercando.
La proiezione nell’altro che si manifesta come carnefice, giudicante e svalutante,
è l’immagine che la donna porta dentro di sé nel suo più profondo essere. E
tutto questo come abbiamo visto all’inizio è determinato da modelli del Sé
insicuri, dall’attaccamento a figure genitoriali che non sono state in grado di
dare la base per la strutturazione di un carattere forte, inteso come coerente
con le sue parti, consapevole del suo valore, degno di amore e appartenenza.
Occorre sempre guardare alle due facce di ogni
cosa poiché è sempre nel riconoscimento dell’opposto che si trova la
possibilità dell’equilibrio, perché senza vedere l’ombra non si può riconoscere
nemmeno la luce. E cosi nella vittima occorre identificare il carnefice
nascosto, quello che non le permette di distaccarsi dal carnefice esterno, su
cui ha scelto di proiettare questo suo lato. Non si scelgono a caso le persone
con cui intraprendere relazioni e se la violenza è inaccettabile lo deve essere
primariamente quella che va contro di Sé.
È necessario un lavoro su due fronti. Un
lavoro sull’educazione emotiva a priori dal genere, che favorisca il ripristino
degli equilibri interni, che riporti l’emozione di base a poter essere
espressa. Da ciò scaturisce il bisogno di essere riconosciuti come esseri degni
di amore e di valore. Una riconnessione con le parti profonde del Sé che
possano riportare alla scelta consapevole di una vita improntata alla ricerca
del benessere e pertanto di persone che rispecchino e rispondano pienamente a
questi bisogni primari, e che ci portino in ultimo alla
soddisfazione reale come Esseri Umani.
Dott.ssa Elena Cossu, Psicologa
Psicosessuologa
Photo: Rebecca Cataldo Photographer
Mostra Fotografica: "Il silenzio che ferisce"
Mostra Fotografica: "Il silenzio che ferisce"